pangasio del Mekong, venduto come cernia, fino al polpo del Vietnam spacciato per nostrano. Ma ci sono anche l’halibut atlantico spacciato per sogliola, il dentice dalla Mauritania e le vongole turche, mentre i gamberetti sono spesso targati Cina, Argentina, Mozambico o, ancora, lo stesso Vietnam. Sono alcuni dei “tarocchi” ittici che finiscono puntualmente nei menu dei ristoranti e mense e di cui il consumatore non sa nulla: convinto di mettere sotto i denti pescato locale, magari del Mar Tirreno, si ritrova invece a cibarsi illusoriamente di prodotti ittici che arrivano dall’altro capo del mondo. Tutto nasce da un “difetto” se così vogliamo definirlo: se l’etichetta di origine con tanto di zona di pesca è obbligatoria per il pescato acquistato in pescheria o dall’imprenditore, lo stesso principio non vale purtroppo quando il pesce arriva al ristorante. Una volta che finisce nella ghiacciaia del ristorante non è infatti più dato saperne la provenienza. Un vuoto che Coldiretti vuole riempire con “l’etichetta di origine” replicando le esperienze già attivate nel settore agroalimentare. Del resto olio o polpi che differenza fa se sono Made in Italy?
La proposta è stata presentata da Coldiretti Impresa Pesca che ha auspicato, nell’ambito dei provvedimenti di legge “sull’ammodernamento della pesca e acquacoltura in Italia”, la “tracciabilità della produzione ittica”. Sarebbe un passo avanti notevole in difesa e per conto del consumatore che chiede, a gran voce, di sapere con esattezza cosa mangia. “Due terzi dei pesci serviti a tavola – spiega Francesco Ciarrocchi, Direttore Provinciale Coldiretti – sono tarocchi. Eppure, nonostante la pescosità dei nostri mari e la presenza di numerose imprese, solo un terzo del pesce proviene dalle nostre coste. La produzione ittica, al pari della produzione agroalimentari, deve essere tutelata e difesa dagli attacchi della pirateria. Nasce da questo principio, lo stesso che ispira il nostro progetto per una filiera agricola tutta italiana, la proposta di Coldiretti Impresa Pesca”. E tra i pesci più “imitati”, a completare un panorama che ha dell’incredibile, c’è anche il pesce spada che invece altro non è che trancio di squalo smeriglio; il baccalà, in realtà filetto di brosme oppure il pagro fresco venduto come dentice rosa. E ancora il pesce serra al posto delle spigole, il pesce ghiaccio al posto del bianchetto, la verdesca al posto del pecespada, l’halibut atlantico al posto delle sogliole. “Dovrebbe essere un diritto del consumatore sapere cosa mangia – conclude Ciarrocchi – noi vogliamo garantirglielo”.